23 Luglio 2020

“Ci hanno raccontato un altro Kafka”. Viaggio nell’infinito kafkiano: come scardinare l’esegesi limando un verbo

Franz Kafka si presta alla tortura degli interpreti; è postumo per questo, si fa divorare dai posteri in forma orizzontale. I suoi racconti sono una profezia, vanno decrittati come i rotoli del Mar Morto, comparando i frammenti deposti nei diari e nei quaderni, alimentando la sapienza con le varianti. Kafka, in effetti, si fa leggere come un testo biblico – anzi, vuole farsi abitare, fomentando eresie.

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I verbi, come il sogno, hanno confini labili: forse è sull’ombra che va edificato un palazzo, su ciò che fugge rivelandosi al contrario va fondata una costituzione. Kafka insegna che stare a quattro zampe non è meno nobile della statura eretta, in effetti.

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Al di là delle affinità ‘filologiche’ – o di fisiologia narrativa – che spiega il curatore, il trittico di racconti kafkiani editi da Marietti 1820 come Un messaggio imperiale – perché è il messaggio, che non appartiene ad alcun imperatore, a essere imperiale – sembrano costituire un grumo unico, solido. Il gemellaggio non riguarda solo la dedizione a un Oriente mistico – Durante la costruzione della muraglia cinese – che prevede le gite orientali di Borges e sintetizza il gusto di Erodoto alla schiettezza degli Annali di Confucio. Nei tre racconti – il terzo è La tana il cuore è una costruzione labirintica (“il labirinto era tracciato solo a grandi linee”), che non difende, soffoca. L’uomo è fatto per le pianure, non per l’imbarbarimento metropolitano – un albero è più salutare di un muro. D’altronde, i racconti di Kafka non sono solubili in una risposta – perfino formale. Chiedono al lettore una pratica.

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Se gli ultimi due racconti si dedicano a qualcosa di solido, di insondabile (la muraglia, la tana), il primo riguarda qualcosa di immateriale, un messaggio sussurrato dall’imperatore di un impero indefinito all’orecchio del messaggero. La memoria può essere più potente della muraglia? Non è più labirintica della tana la mente di un uomo? Il messaggero fugge verso l’aperto, ma l’uscita gli è preclusa: “e di nuovo scale e cortili; e di nuovo un palazzo; e così via per millenni; e se infine si precipitasse fuori dall’ultima porta – mai e poi mai può accadere – davanti a lui vi sarebbe solo la residenza imperiale, il centro del mondo, collocata sul cumulo dei suoi detriti”. La costruzione, come la legge, soggioga, è una museruola: sapremo ritrovare la violenta levità dei giaguari? Il potere, per definirsi e difendersi, muore per inghiottimento; l’onnipotente è sazio accettando il predominio dell’erba, gli basta il volo di una poiana.

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Vito Punzi – scrittore e traduttore: tra i suoi lavori ricordo il Carteggio tra Hannah Arendt e Hermann Broch, di quest’ultimo sta rivedendo le magnetiche poesie – fa crollare l’architettura esegetica di Kafka modificando un verbo. Come si toglie il mattoncino alla base di un castello, ridefinendone l’equilibrio. La frase che chiude Un messaggio imperiale traduce il racconto in paradosso. “Si dice che l’imperatore a te, il solitario, il misero suddito, l’ombra fuggita nella lontananza più lontana e minuscola al cospetto del sole imperiale, proprio a te l’imperatore abbia inviato un messaggio dal suo letto di morte”: così comincia il testo. Dopo aver sfidato le pianure dell’assurdo, certi che il messaggero non può – perché la dimora imperiale è vasta millenni – raggiungere quel tu, cioè me, lettore, la visione, bellissima: “Eppure tu siedi alla tua finestra e te lo immagini quando viene la sera”. Qui Punzi compie una piccola rivoluzione. Le versioni canoniche (tra le tante, scelgo quella di Ervino Pocar) traducono così: “Tu, però, stai alla tua finestra e lo sogni, quando scende la sera”. Sognare e immaginare appartengono a sfere del conoscere e del sentire simili ma differenti: in Kafka ogni parola è distillato, stillicidio.

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Certo, è Kafka a intrigarsi nel fraintendimento, a impollinare ipotesi. La sua parola, tanto nitida, è tormentata di spiragli. Anche la spada, infine, si confonde col vento. Ed è bene. (d.b.)

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Intanto, perché proprio questi tre racconti?

Una scelta venuta di conseguenza ad un cortocircuito causato da un verbo presente a conclusione del brevissimo racconto-parabola Un messaggio imperiale, scritto nel 1917 e pubblicato due anni dopo su rivista. Kafka inserì poi quel testo all’interno di un racconto più lungo, Durante la costruzione della muraglia cinese, scritto nello stesso periodo, ma rimasto inedito fino al 1931: volontà kafkiana che aveva un senso assecondare e che ho assecondato. Il terzo racconto, La tana, apparentemente senza relazione con gli altri due, è parte anch’esso del lascito inedito pubblicato da Max Brod e Hans Joachim Schoeps nel 1931. Scritto negli ultimi mesi del 1923, alcuni mesi prima della morte, anch’esso si cimenta con piani architettonici ed edificatori di difesa, seppur sotterranei, diciamo pure, fuor di metafora, interiori.

E poi: cosa hai ‘scoperto’, pensando al linguaggio come un oceano di continue e paradossali esplorazioni? Intendo. Sull’ultima, magnifica, frase di Un messaggio imperiale (anche il titolo hai cambiato!), compi una specie di stravolgimento. Come mai?

La “scoperta” ha riguardato, come dicevo, un verbo usato da Kafka nell’ultima frase di Un messaggio imperiale (che qualcuno in passato, chissà perché, ha tradotto con Un messaggio dell’imperatore), lì dove Kafka indica l’azione del “tu” che attende (inutilmente, sembrerebbe) il messaggio imperiale, con il verbo sich erträumen. Se si fosse trattato di träumen, non ci sarebbe stata alcuna discussione possibile: ci saremmo trovati di fronte al “sognare” (questa la scelta di fior di traduttori come Pocar, Zampa, Schiavoni), inteso come attività inconscia: a quel “tu” dunque non resterebbe che la consolazione del sogno. Ma Kafka scelse sich erträumen, che ha come sinonimo il verbo wünschen, “desiderare”, quindi pensava quel “tu” afferrato da un’attività conscia, immerso in un’azione immaginativa cosciente impregnata di un forte contenuto di desiderio. C’è tanta letteratura intorno al tema fedeltà o infedeltà, nella traduzione. In questo caso ho scoperto quanto, forse nel tentativo onesto di interpretarne visioni, incubi e parabole, nella costruzione dell’universo kafkiano in lingua italiana si sia spesso deciso per l’infedeltà al testo di partenza, finendo però, azzardo io, col raccontare un “altro” Kafka.

Cosa ti ha detto, tra le tagliole della lingua, oggi, Kafka? Perché dovremmo leggerlo, ancora? Perché dovremmo scavarlo e tradurlo?

Un esempio, da Durante la costruzione della muraglia cinese questa volta, per dire il motivo per cui vale la pena rileggerlo, in originale anzitutto, e quindi tradurlo. È lì che a un certo punto Kafka contrappone i confini “angusti” del “raziocinio” dell’io narrante al territorio da cui quello s’immagina essere circondato, usando un sostantivo, das Endlose, l’“infinito”. Chissà per quale motivo, traduttori miei predecessori hanno scelto di ridurre quel sostantivo ad attributo di das Gebiet, “territorio”. Un tradimento della volontà del praghese di mettere in relazione “io” e “infinito” che non ha ragione d’essere e soprattutto svia, allontana, perché l’“infinito” kafkiano (paradosso dei paradossi) ha sostanza in sé, non necessita di attributi. Può esserlo, ma non è solo spaziale. È anche tempo. Forse soprattutto. Altrimenti non sarebbe infinito. In fondo la lingua di Kafka è sempre nuova (come lo è quella di ogni grande scrittore), è sempre disvelatrice di nuovi significati, proprio perché costante “combattimento” tra confine e infinito. Ecco perché ritengo valga la pena leggerlo, e rileggerlo.

Piuttosto: cosa vorresti tradurre, ora?

A questo punto mi piacerebbe continuare a scavare nell’universo linguistico kafkiano, affrontare altri suoi testi, romanzi compresi, perché certo che ne uscirebbero altre “sorprese”.

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